Complicati confronti generazionali

Ero a pranzo da un amico che non vedevo da molto tempo e ho avuto il piacere di passare un po’ di tempo anche con i suoi bambini, D. di 13 mesi, e G. che ne compie otto il prossimo dicembre.

Dopo aver mangiato, G. vuole mostrarmi il suo fantastico mondo fatto di libri, giochi e personaggi fantasiosi.

Si allontana per andare a prendere una grande scatola contenente i pezzi di un puzzle tutto da comporre.

Guardo la confezione e ne riconosco l’immagine. Si tratta di uno dei suoi cartoni preferiti.

Io, per mostrarle la mia complicità, esordisco con un “che bello! Hai il puzzle di Frizer.”

Lei mi guarda dapprima un po’ perplessa e un attimo dopo scoppia in una fragorosa risata, rispondendo: “Si chiama Frozen!”

Come sono out.

Quasi un anno

Quasi un anno è trascorso da quando ti ho visto l’ultima volta.

Tanta acqua è passata sotto i ponti prima di ritrovarci qui,

sulla nostra panchina.

Crocevia delle più intime confidenze.
-sei diversa, qualcosa non mi torna quando dici di “stare bene”.

-no dai, non preoccuparti. Va tutto bene, davvero. Ora vai, altrimenti farai tardi.
Le nostre parole fluivano lente sullo scorrere inesorabile di quel tempo spietato.

Un ultimo abbraccio prima di partire.

Mi stringe forte a sé

mi avvolge completamente

cingendo le braccia attorno alla mia vita

tenendomi in una silenziosa morsa

mentre la bocca si andava riempiendo delle parole non dette.

Poggia la testa sulla mia spalla nuda restando lì per 10 lunghi e silenti secondi.

Mi perdo in quell’abbraccio ogni volta. Quante le volte in cui mi sono appoggiata a te? Quante le volte in cui hai visto scorrere le mie lacrime a fiotti?

Ti stringo ancora un po’, voglio godermi questo istante di tenerezza.

Sento la mia spalla inumidirsi e una goccia scivola lenta  lungo il braccio.

L’afa di questa giornata non mi permette di confonderla al sudore.

Ti guardo strizzare gli occhi per nascondere il dolore.

Resto qui.

Nel nostro silenzio.

Non faremo parola con nessuno di quanto accaduto.

Non sventoleremo ai quattro venti la tua sofferenza.

La condivideremo

io e te

ancora una volta sulla nostra solita panchina.

Nessun altro saprà del dolore che ti sta logorando.

E in silenzio continuo a fissarti, sostengo il tuo sguardo.

Non servono parole, non sono mai state necessarie tra noi.

Ti regalo un nuovo abbraccio

lasciandoti con un bacio sulla spalla.

Serate romane

Arrivare in stazione per prendere il treno delle 17.59 diretto a Roma e scoprire che è stato soppresso.

Prendere quello successivo e arrivare in ritardo.

Cena biologica a casa di un’amica e lavarsi i denti prima di uscire con dentifricio fatto in casa (da brava ambientalista qual è, ha smesso di comprare tutto ciò che è avvolto nella plastica).

Uscire per raggiungere la città universitaria e scoprire che la metro A è chiusa per “lavori notturni”.

Prendere la macchina.

Tagliare la strada ad un’auto troppo indecisa.

Fare il pelo al tram.

Evitare la macchina sbucata improvvisamente da un parcheggio,
inchiodare per evitare di tamponare lo scooter che sorpassa con nonchalance e rientra di scatto in corsia.

Premere sul pedale del gas ad ogni semaforo arancione e ignorare il rosso che scatta sopra le nostre teste.

Cercare parcheggio per 20 minuti (manco troppo rispetto alla media) e insultare la Smart davanti a noi per aver trovato un buco in cui infilarsi.

Fare la fila per entrare alla notte bianca alla sapienza.

Fare la fila per prendere da bere.

Spaventarsi e allo stesso tempo entusiasmarsi alla vista dei dinosauri difronte alla facoltà di geologia.

Trovarsi in mezzo a tanta gente.

Saluti. Tanti saluti.

Uno scambio di abbracci calorosi con gli amici che non si vedono da tempo

e poi giù a bere.

Bevi bevi bevi.

Balla balla balla.

Reggae – techno – musica live.

Pogare e farsi portare alla deriva tra uno spintone e un’acciaccata di piedi.

Salta urla e spingi più che puoi. Chi si ferma è perduto.

Prendere una birra per spegnere la sete.

Tornare a ballare di nuovo sulle note dei 99 posse.

Scoprire che Giovanni Truppi sta suonando proprio a 5 metri da dove stavi spintonando prepotentemente gente.

Fare un video, cantare le canzoni fino alla fine del concerto,
fino a cacciare l’ultimo alito di fiato rimasto in gola.

Pensa e pensa ancora.

Torna a pogare, spazza via tutti (o almeno credici!).

Bevi da una fontanella ché ormai l’arsura ti ha impastato la bocca e un sorriso plastico si è incollato sul tuo viso.

Intanto avanza l’aurora che spazza via l’oscurità della notte.

Ed è già alba.

Si tinge il rettorato dei primi colori del giorno nuovo.

Si mostra Roma in tutta la sua bellezza.

Giro panoramico sul Pincio.

Quanto sei bella Roma,

Roma eterna.

Roma dannata.

Quanto mi manchi.